Impresa digitale e territorio competitivo

Impresa digitale e territorio competitivo

Pubblichiamo la mail di Stefano Colombu del 26.2.15 a Luca Meldolesi e il dibattito che ne è seguito.
Gentile Luca,
come ti ho raccontato il giorno che ci siamo visti a Roma, ho appena concluso un percorso di creazione di competenze per l’innovazione di impresa con il Formez PA di Cagliari.
A seguito di questo percorso ho maturato delle riflessioni le quali, mi pare di intuire dalla lettura delle tue pubblicazione e dai tuoi messaggi di posta elettronica, hanno diverse e salienti intersezioni con la promozione dei principi del federalismo democratico e con le iniziative che porti avanti per la promozione di una cultura d’impresa.
Per quanto l’argomento sia complesso e abbia personalmente sviluppato un livello approfondito di analisi (sto lavorando ad un paper work che, se ti farà piacere condividerò con te e con voi) provo a delineartelo nei tratti più essenziali.
Voglio esprimere i concetti di impresa digitale e territorio competitivo.
Definisco l’impresa digitale come quella impresa che fa un utilizzo intenso ma ragionato del fattore di produzione internet in combinazione con il fattore produttivo lavoro qualificato. Il territorio competitivo è quel territorio formato da delle reti (anche informali) di imprese digitali che in tal modo è in grado di competere a livello interno e internazionale.
Per quanto riguarda l’impresa digitale essa deve combinare il fattore produttivo internet con il fattore produttivo lavoro qualificato in due macro aree. Le chiamerò Web e Comunicazione/Gestione/Sviluppo, sebbene consapevole che le definizioni sono un po strette per i reali contenuti che voglio esprimere.
All’interno della macro area web l’impresa che da tradizionale diventa digitale dispone in primo luogo di un sito internet responsive, ma ad un livello più approfondito è dotata di una unità di web intelligence che utilizza strumenti quali Google Trends, Adptive Web, Data Mining per raggiungere i suoi clienti e intercettarne di nuovi nel mercato interno e internazionale.  (Consapevole del fatto che per i non adetti ai lavori questi potrebbero essere termini “nuovi”, per un veloce approfondimento ti rimando alle pagine di wikipedia di ogni termine).
La macro-area Comunicazione/Gestione/Sviluppo si declina invece in due sotto aree: interna ed esterna. A livello interno si realizza sia nella la gestione del processo che per la creazione di nuovi prodotti. Nella gestione del processo: tramite l’utilizzo di sistemi in cloud per la gestione del project management e nella gestione ottimizzata delle relazioni con fornitori, clienti e dipendenti. Ma non solo, all’interno di quest’area è possibile intervenire ed ottimizzare interi comparti come potrebbero essere quelli della distribuzione e della logistica. Per la creazione di nuovi prodotti invece, l’impresa digitale fa ampio utilizzo di tecniche di co-creazione a basso costo (tramite applicazione dei principi Lean Start Up, Ries) con i clienti (costumer development).
Per quel che riguarda la comunicazione esterna mi riferisco all’evoluzione digitale e moderna del marketing, e con ciò faccio riferimento al social media marketing ma anche al racconto testuale (story telling tramite blogging) o visivo (visual story telling) dei luoghi, produzioni e tradizioni. Sino a forme più evolute di social costumer care ecc.
Svolte brevemente queste formulazioni, sono del parere che sia la micro e piccola impresa l’unità produttiva in grado di beneficiare maggiormente dei benefici di un processo di digitalizzazione come quello che ho descritto. Tuttavia sono anche a conoscenza dei limiti con cui la citata impresa opera (culturali, finanziari, normativi, ecc).
Per superare questi limiti sono del parere che sia necessario intervenire su altre due macro aree. Le chiamerò Reti e Internazionalizzazione.
Per ciò che riguarda le reti mi riferisco a reti di comunità. Micro e piccole imprese partecipi di reti modulari, anche informali, di comunità, tramite le quali sono in grado di ridurre i costi e massimizzare le opportunità del processo di digitalizzazione come descritto prima. E sotto questo punto di vista mi riferisco ai vantaggi che sono propri della sharing economy come potrebbe essere la condivisione del management (in una rete trasversale ad esempio, che potrebbe interessare imprese del comparto produttivo e turistico guidate da un unico manager in un processo di digitalizzazione); condivisione di fornitori (ad esempio le unita di Web intelligence hanno più senso per una rete piuttosto che all’interno di una singola impresa, specialmente se micro) nella individuazione di nuovi modelli di business con approcci di Open Innovation (Chesbrourg, California University).
Mentre per quanto riguarda l’internazionalizzazione faccio riferimento sempre al concetto di rete di comunità (la quale nasce variabile, libera e sfumata. Modulare direi) in grado a questo punto di competere (perchè, in rete riesce a realizzare la giusta scala) nei mercati internazionali sia dal punto di vista tradizionale (e quindi missioni commerciali, accordi internazionali, fiere, intermediazione delle camere di commercio, ecc.) ma anche e sopratutto tramite un’offerta valida e competitiva nei canali del commercio elettronico.
A mio parere, l’unione di queste quattro macro aree: Web, Comunicazione/gestione/sviluppo, Reti, Internazionalizzazione forma un quadrante che definisce un territorio competitivo. All’interno di un territorio competitivo operano le imprese digitalizzate, multinazionali tascabili che tramite approcci di rete ad hoc e modulari sono in grado di competere nei mercati interni e internazionali generando economie, occupazione di qualità, favorendo la nascita di nuove imprese in grado di supportare l’intera rete e, indirettamente, incidere nella richiesta di revisione più snella (e anche qui, modulare) della pubblica amministrazione.
Ho provato ad esprimerti nella maniera più sintetica possibile le mie riflessioni. Sono a disposizione nel caso vorresti approfondire uno o più aspetti e aperto a nuovi stimoli. Dall’altro lato sono alla ricerca, e da questo punto di vista ti chiedo se nella tua rete è possibile creare delle connessioni, di imprese e manager interessate ad ascoltare, enti di ricerca interessati ad approfondire e finanziare ulteriori ricerche, giovani interessati ad intraprendere in nuove imprese.
Con una cordialità viva, perché dettata dall’entusiasmo e dall’ottimismo per un futuro che aspetta solo di essere gestito e governato, ti saluto.
Attendo tue,
Stefano Colombu (Mail a Luca Meldolesi del 26 febbraio 2015)


 
Il 26 febbraio 2015 Luca Meldolesi ha scritto:
Caro Stefano,
non sono onnipresente e/o onnisciente.
In generale, non mi occupo di quei temi.
Ma nel nostro giro sono numerosi coloro che si dilettano, in un modo o in un altro, di tutto ciò: in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Lombardia.
Il guaio è che, se girassi loro semplicemente la tua e-mail, ho paura che cadrebbe nel vuoto.
Toccherebbe, piuttosto, a te cominciare a confrontarti partendo da un punto qualsiasi.
Se tu fossi ancora a Cava ti direi di iniziare da lì (Amedeo), poi da C/mare e da Giuliano in Campania (dove Tom e Franco aprono una scuola imprenditoriale sabato) e così via.
Ma ora? Non saprei risponderti.
Ciao!
Non ti scoraggiare!
LM


Gennaro Di Cello, 28 febbraio 2015 
Buongiorno Stefano,
grazie per il contributo su idee e strumenti con i quali oggi è necessario confrontarsi come cittadini, imprese e pubblica amministrazione. Lo sviluppo delle nuove tecnologie apre prospettive inedite, soprattutto sul fronte della costruzione di reti di reti, di reti collaborative e partecipative, consentendo al locale di esprimere la propria identità a livello globale, imponendo anche una ridefinizione e un upgrade continui del significato di tali termini.
E’ innegabile che le nuove tecnologie e il web in particolare aprano spazi prima inesistenti e che da quegli interstizi di tanto in tanto emergono proposte originali, in alcuni casi rivoluzionarie, con una frequenza ed una velocità prima inimmaginabili. Anche la velocità con la quale declinano e scompaiono i grandi marchi è, a mio parere, l’effetto di una metamorfosi di tendenze, di stili e mode fortemente condizionata dalla rete e dai processi di condivisione sociale dei contenuti, anche se in molti casi tali fenomeni si manifestano come effimeri, temporanei, destinati a scomparire, a “non resistere”.
Pensiamo solo per un attimo alla incredibile storia di Nokia, una multinazionale che, nata nel 1865 – a Nokia sulle rive del fiume Nokianvirta – ha prodotto per oltre un secolo carta, cellulosa, gomma, cavi elettrici. Negli anni Novanta la società decise di investire nel settore delle telecomunicazioni e dopo una serie di insuccessi la telefonia diventò il core business dell’azienda. Nel 2007 la società diventò leader mondiale nella produzione di cellulari con una quota di mercato del 40%. Oggi, in poco meno di 7 anni, la divisione devices che ha reso Nokia un marchio globale, una delle più importanti brand equity di settore, è stata spazzata via dalle nuove tendenze e acquisita da un altro brand globale, Microsoft Mobile. Per me che ho iniziato felicemente ad usare Nokia, per poi migrare verso soluzioni Apple, è trascorso più o meno un secolo…
Potrei citare mille e mille altri esempi, su tutti Vitaminic, un ambizioso progetto torinese nato nel 1999, che si è impresso nella mia mente semplicemente perché nella fase del boom e della retorica della new economy, fui personalmente indotto dall’ubriacatura collettiva e dalle performance di Tiscali ad acquistare delle azioni, scommettendo sul futuro di un brand che anticipava di 4 anni la proposta di Steve Jobs e della sua piattaforma di musica digitale iTunes. Per circa 24 mesi avevo osservato scientificamente che ogni nuovo collocamento in Borsa di nuove matricole produceva sistematici balzi di valore, impensabili per le imprese tradizionali. Il valore delle azioni di Tiscali aumentò del 50% il primo giorno di collocamento e in pochi mesi una sola azione arrivo a valerne addirittura 10. Nel 2002 decisi, dunque, di investire su Vitaminic, confidando nelle statistiche e nell’evidenza dei fatti, nelle mie certezze e in quelle dei media. Dopo 24 mesi di positivi collocamenti sul nuovo mercato, il titolo delle matricole Vitaminic e poi E-Biscom furono i primi a registrare, dopo ben due anni, un saldo negativo in Borsa, segnando una nuova fase e una disillusione collettiva, soprattutto la mia e quella del mio conto corrente.
Ho riportato questi esempi perché penso che la rete rappresenti una delle più grandi rivoluzioni della storia e una straordinaria opportunità per le comunità e per i territori di valorizzare culture, patrimonio materiale e immateriale, valori e produzioni locali. Le reti virtuali inoltre, per via delle loro caratteristiche (reticolarità, convergenza, multimedialità, sistema open, ecc.) garantiscono a chiunque la possibilità di istituire dei “centri di attenzione”, di costruire community di pensiero, di stile, di tendenze e di acquisto… Ma non esistono ricette di successo o un certo determinismo dei risultati. La realtà è ben più complessa, non riducibile ad una formula matematica, e determinati fattori abilitanti non sempre sono presenti, come dati di contesto, o facilmente riproducibili.
E’ importante e stimolante la tua riflessione, che condivido, soprattutto per quanto concerne gli aspetti di ottimizzazione e razionalizzazione dei processi, delle filiere, degli obiettivi di marketing e comunicazione, ma, aggiungo, dobbiamo evitare di pensare il “quadrante” come un astronave concettuale che può essere calata dall’alto sui territori e sulle imprese. Il quadrante lo interpreterei come una strumentazione al servizio delle comunità (di territori, imprese, cittadini), ma se le comunità non esistono o fanno fatica a pensarsi come tali, nessun quadrante potrà cambiare il loro destino.
Prima del quadrante occorre, allora, costruire veri e propri percorsi di comunità, occorre essere presenti sui territori e implementare, grazie alla cultura del fare, processi virtuosi, sensibilità comuni, visioni di sviluppo, idee di un cambiamento possibile, facendo in modo che l’innovazione tradizionale integri l’innovazione tecnologica come leva per potenziare e rafforzare i propri asset di valore.
La specificità del sistema produttivo italiano, la sua eccessiva frammentazione, il suo rapporto simbiotico con il territorio (pensiamo all’artigianato, all’agroalimentare e a tutto ciò che è riconducibile ad un autentico made in italy, quello non delocalizzato e delocalizzabile), rendono molto pregnante e interessante la possibilità di far evolvere le piccole imprese in reti di imprese (una delle forme è quella dei contratti di rete) e infine in piattaforme collaborative social. Io sono convinto che il “quadrante”, per riprendere la tua felice espressione, possa essere molto importante, ma in una nuova accezione e dimensione. E’ possibile, infatti, immaginare una via italiana all’innovazione tecnologica? E’ possibile immaginare un mix e una integrazione originale e alternativa tra territori, comunità, reti di imprese, made in italy, strumenti tecnologici e nuovi modelli di business? Secondo me sì, a patto di non dover inseguire modelli altrui, modelli che non tengano conto della peculiarità dei territori, delle comunità d’imprese e delle produzioni locali.
Oggi, invece, soluzioni tecnologiche prevalenti insistono sulla standardizzazione delle esperienze e non sulla creazione di modelli di fruizione personalizzati, tailored, adattivi rispetto a utenti e profili dotati di un certo gusto, cultura e bisogni. Occorre raccontare i territori e le produzioni (lo storytelling appunto) per dare senso e spessore esperienziale al made in italy, ma le agenzie di comunicazione e le software house che disegnano le interfacce per le imprese, tendono ottusamente ad acquistare modelli responsive progettati in India, in Cina, in Corea per prodotti di largo consumo e/o facilmente adattabili a tutte le esigenze secondo stili generalisti. Oggi l’acquisto di un certo quantitativo di pecorino crotonese su internet è un’esperienza costruita replicando per il “crotonese” modalità d’acquisto progettate e pensate per il tablet di samsung. E dunque le imprese che oggi provano a vendere il made in italy, inconsapevolmente si comportano come se dovessero vendere tablet e videogiochi e non prodotti che invece esprimono forti relazioni e legami con i territori e con il simbolico di un luogo o di una cultura.
E’ importante ragionare di questi temi, soprattutto perché Luca ultimamente sta dedicando tempo e riflessioni per approfondire la cultura e la rete degli italiani nel mondo, nel tentativo di far emergere “il potenziale italico”, utile non solo perché può aiutare il nostro Paese a svecchiarsi ma anche perché rappresenta un potenziale bacino di utenti e un target orientato alla produzione del made in italy. Se aggiungiamo agli “italici” anche gli appassionati e gli ammiratori della cultura italiana, ci rendiamo conto che la “rete”, in senso fisico e virtuale, e i nuovi approcci alla rete possono rappresentare dei potenti driver di sviluppo e di crescita.
Ma serve un pensiero nuovo (nuove semantiche, nuove ermeneutiche) che revisioni criticamente gli strumenti esistenti, adattandoli ai territori e alle comunità di imprese. Abbiamo avuto la fortuna di ospitare un gigante in Italia, Adriano Olivetti, che stava creando una via italiana all’innovazione tecnologica. Poi la sua morte prematura ha interrotto la costruzione di una visione e di un sogno. Rimane un grande patrimonio che non va disperso. Connettere queste riflessioni alla lezione e ai racconti di Luca può creare corti circuiti creativi e collegamenti e contaminazioni inedite, ma sta a noi provarci e a tutti coloro che operano in questi ambiti.
Per interessi e passioni sono interessato ad approfondire il tema/i temi.
Per intanto grazie delle tue sollecitazioni.
Gennaro.


Paolo di Nola   1.3.2015
Buongiorno a tutti.
Rispondo all’invito di Luca a leggere e a intervenire….probabilmente perderete tempo nel seguire questo ragionamento  ma ormai ho deciso di coinvolgervi..
Il titolo, molto retorico e veramente muffoso, di questa mia sciocca nota è molto banale e lo espongo, con voluta ingenuità narrativa (un fine scrittore – che ahimè non sono minimamente – lo celerebbe anche per sollecitare l’autonomia del pensiero e per non condizionare troppo il percorso di scoperta che ha diritto di sperimentare il lettore) sperando di mettere subito in luce il piccolo senso del mediocre appunto: Tipicità e Tradizione Globale.
Lo dico subito: è un titolo brutto assai, rischioso per il pensiero perché conformato a stilemi didascalici veramente vecchi e stanchi (da musei ottocenteschi) che tuttavia penso utile per provare a spiegarmi meglio.
Ho letto e intervengo perché ben aiutato da una canzone che, in onda alla radio, ascoltavo mentre leggevo le email da luca (e scrivevo l’incipit di questa mia).
Ne riporto la strofa, un po’ epifanica:
……Che punta verso galassia a cercare vita
Come nei sabati sera in provincia
Che sembra tutto finito, poi ricomincia…..
E lo dico perché, leggendo la bella corrispondenza condivisa da Luca e rinviando al recentissimo snocciolamento di dati sulle attese del nostro sistema produttivo, pare che il Made in Italy, con fisionomie e fenomenologie nuove e inesorabilmente rinnovate, potrebbe riemergere con un piccolo salto, come quello della rana dal fango del letargo….(su questa immagine, si veda il 24ore di oggi, p.20).
Ai fini di questo mio inutile divertissement, devo evidenziare a me stesso che:
– ho letto (forse questo verbo andrà ripensato….) scambi di idee grazie ad esoterici mezzi di comunicazione e che fino a trent’anni fa questo esercizio avrebbe richiesto giorni, settimane..;
– ho contemporaneamente ascoltato musica, trasmessa alla vecchia radio ma in via digitale;
– ho trovato subito il testo dello sconosciuto brano che ascoltavo, cercandolo by Google (è una canzone newrap di Jovanotti);
– il problema della tradizione non c’è più!! Nel senso che “già è” ! …..la “tradizione” (?!)  sta già su google (in generale, nel patrimonio mondiale web che vive di cogenerazione, coprogettazione, in ambienti open, sempre liquidi….etc.etc…) nel mentre l’oggetto della tradizione “si” pensa, “si” crea, forma, condivide, sedimenta, critica e discute e ricompone….tutto insieme e quasi da solo…..e questo, per riferirmi anche al citato caso del rispettabilissimo (lo sto evocando senza alcun sarcasmo e lo prendo un pò come presupposto per) pecorino crotonese;
– ho appena licenziato una app che ho dovuto far fare (non ne capisco quasi nulla..ma sono sbalordito dalla velocità: tutto in meno di 10 giorni, comprese le versioni in otto lingue dei contenuti e delle grafica e già gira in Android, Apple, etc.etc.etc. Per me, che faccio ancora il presepio riflettendo sulla posizione dei componenti della Sacra Famiglia e di Benino, è un po’ sconvolgente) per un progetto collegato ad Expò (che punta ad intercettare i visitatori di rimbalzo nei sei mesi della manifestazione facendogli vedere – in chiave anche promozionale – dove poter ritrovare e “toccare con mano” alcune eccellenze delle produzioni italiane collegate ai temi dell’Expo… ) e debbo dire che, in barba alle virtù delle tipicità, l’Italia tutta si è presentata grondante di caciotte, olio, vino, caciocavalli, agrumi,…. pericolosamente identici (è stato bellissimo ammettere l’insuperabile difficoltà dei grafici nel tentativo di escogitare un simbolo stilizzato – cioè non espresso mediante le miniature dei bestiari medievali o degli erbari e lemmari di setteottocento – che riuscisse a raffigurare la differenza tra limoni e cedro, comprensibile, leggibile anche per un cinese ed evitare l’uso del medesimo simbolo,….impossibile, nel panorama dei mezzi comunicazionali a disposizione..le tra un po possiamo far viaggiare profumi..allora sarà un passo a vanti nelle esigenze di distinzione aromatiche..,). E le cui differenziazioni vanno approfonditamente cercate, spiegate ed esaltate, evitando il rischio che al palato del mercato globale (la “galassia” della suddetta canzone di Jovanotti) siano tanto complesse e minuziose da non essere rilevate o rilevanti (qualcuno che ci ha lavorato con me ricorda le insuperate difficoltà di far accettare l’unicità del “tinto in capo”, tipico prodotto italiano in alcune linee di confezioni d’abbigliamento, ai buyers importatori giapponesi che puntualmente rispedivano al mittente le forniture poiché i capi sballati dai pacchi consegnati erano tutti diversi l’uno dall’altro – e così non può non essere date le caratteristiche tecniche del “tinto in capo” che ne costituiscono proprio la qualità intrinseca: “Differenze di sfumature nei colori inaccettabili e non rappresentate nei campionari visionati” era la contestazione! Fenomeno voluto, spiegato, rispiegato, rifiutato! Non era il mercato giusto per quel prodotto!).
Quello è il mercato delle tipicità? Come starci? Non so rispondere veramente.
Penso, molto banalmente, però che sia indispensabile preservare e difendere dal tritacarne il valore delle tipicità, che per il Made in Italy sono ancora molto importanti. Se tutti proclamano (inevitabilmente on web, dove le tradizioni e le idee nascono e si diffondono istantaneamente) che quel territorio/prodotto è l’ombelico del mondo (ancora Jovanotti), commercialmente non è molto credibile o è una leva di competizione che dura poco, sopratutto se troppi altri rivendicano la medesima esclusiva!
Insomma e per finire, bisogna praticare modi efficaci – non nostalgici!!!-  per mantenere viva la forza della provincia (nel senso migliore del concetto di tipicità) anche in questa epoca della “tradizione globale”…altrimenti, i “salti della rana” saranno timidi e affannosi! Cioè provinciali, nel senso tristemente negativo del termine.
L’ho visto chiaramente in questo processo di costruzione di questa app-catalogo-guida (che è solo un pezzettino del succitato progetto per EXPÒ e che non è ancora pubblica, chi cercasse di scaricarla non la troverà): tutti (cioè i territori espressi dalle amministrazioni regionali attraverso le persone dei loro presidenti et collaboratori- altro tema che non posso qui affrontare è sempre quello della forza e attendibilità della rappresentanza territoriale – che hanno avuto mesi per selezionare, insieme ai loro “territori”, ed indicare le tipicità locali) hanno proposto le stesse tipicità…pur di fronte all’invito, supportato, di confrontarsi col vicino  e selezionare meglio…., a parte il caso dell’ignoto “asparago rosa” proposto dalla Lombardia!!! Un esotismo per me spiazzante…
…..Noi di provincia siamo così
le cose che mangiamo
sono sostanziose come le cose
che tra di noi diciamo…..(cfr paolo conte, snob, 2014).
Buona domenica, quando “vedevamo le partire contro il muro, non allo stadio….” (in riferimento alla radio che permetteva l’ascolto delle cronache delle partite e che questa mattina mi ha provocato questa nota spropositata), cfr. Lucio Dalla…Come vedete vi ho risparmiato scontate citazioni del, per me amato, comodissimo e a portata di memoria, repertorio musicale napoletano…
Tipico, direbbe luca!
Abbracci
Paolo


Gennaro di Cello 1.3.2015
Buongiorno Paolo,
felice di leggerti, per la leggerezza domenicale, per gli stimoli densi contenuti nella tua mail, addirittura fin troppi…
Impossibile, infatti sintetizzarli tutti e provare ad articolare un contributo puntuale. Rischierei di perdermi… e rischierei di litigare con i miei figli che pretendono che io li aiuti a produrre un avanzamento di schema nella saga de Il Signore degli Anelli, un esempio tra gli altri di come tradizione e innovazione tecnologica si compenetrano fino a confondersi…
Mi limito solo a riprendere alcuni concetti, prima di rituffarmi nella saga di Tolkien, arricchendo, almeno spero, alcune tue efficaci argomentazioni.
Tradizione e innovazione
E’ vero, la tradizione è già su google, digerita da ambienti liquidi. Si tratta di un importante passo in avanti nell’accesso al patrimonio materiale e immateriale. L’idea alla base delle Digital Library è proprio questa, di facilitare l’accesso, di rendere trasparente il patrimonio locale. Istella il motore di ricerca di Renato Soru, che sulle ceneri di Arianna prova a rimettere al centro una nuova idea di motore di ricerca (in fondo già questa è una risposta italiana a google), punta sull’idea di costruire una piattaforma di ricerca, raccolta e condivisione del sapere e del patrimonio nazionale italiano. Esperienze del genere vanno sostenute, diffuse e rafforzate, proponendo integrazioni e miglioramenti in chiave, come giustamente dici, di co-partecipazione e co-progettazione.
La progressiva necessità di comunicare via internet l’identità di piccole e medie aziende, o di valorizzare realtà culturali locali e periferiche, attiva infatti un ovvio mercato di produzione di contenuti digitali, il quale è scisso, per lo più, tra la produzione pubblicitaria ad alto budget, riservata a pochi soggetti, e la produzione semi-professionale, quando non familiare, scarsamente attrattiva, soprattutto al di fuori dei territori regionali. Il gap non è risolvibile inseguendo attività formative per realizzazioni “maggiori” ma specificando e indirizzando realtà produttive capaci di elaborare nuovi generi di discorso audiovisivo, nel contempo partecipato (da parte dei protagonisti), critico (da parte dei realizzatori), documentaristico (per ciò che attiene ai materiali).
Si tratta in sostanza di promuovere la produzione di contenuti digitali e forme audiovisive di valorizzazione del territorio, dei beni culturali, delle realtà artigiane e gastronomiche che non pertengono direttamente al mercato pubblicitario, quanto a quello dell’autopromozione, dell’arricchimento iconografico, testuale e multimediale dei siti internet e soprattutto dei paratesti acclusi alla vendita dei prodotti. Quest’ultimo aspetto meriterebbe a mio parere importanti approfondimenti. In questo senso, il discorso audiovisivo può coniugare l’immaginario, con i suoi valori anche intangibili, alla concretezza delle materie prime, degli attori sociali implicati, delle realtà aziendali, oltre a immettere la valorizzazione in un circuito che è anche di narrazione delle tradizioni comunitarie e dello spirito d’intrapresa dei singoli.
Tipicità
Concordo con le tue riflessioni, su alcune sfumature occorrerebbe soffermarsi molto, ma in linea generale hai ragione: bisogna praticare modi efficaci e assolutamente non nostalgici per mantenere viva la forza di un territorio e di una cultura locale soprattutto in questa epoca di “tradizione globale”. Si tratta del tema connesso e ineludibile dell’autenticità e dell’appartenenza di un prodotto e materie prime, filiere produttive, saperi e comunità locali.
Il formaggio tipico, per riprendere ancora una volta il crotonese (gli fischieranno le orecchie, volendo antropomorfizzare), diventa in questi termini merce ma anche marcatore di un sistema culturale locale. Come comunichiamo le sue caratteristiche non di merce ma di contenuto simbolico, culturale e immateriale?
Ancora una volta le strategie di comunicazione devono aggiornare codici, semantica, linguaggi, particolarmente nel nostro Paese. Infatti da una comparazione approfondita da me realizzata negli ultimi anni, per mera curiosità intellettuale, su oltre 2.000 etichette nazionali e internazionali di bottiglie di vino (ma la stessa analisi comparativa vale per l’olio) il nostro è il Paese maggiormente e tristemente in ritardo, incapace di comunicare i valori di fondo dei prodotti agroalimentari, di superare stereotipi e luoghi comuni nell’uso di emblemi e segni, che rimandano superficialmente e nostalgicamente ad una tradizione che non esiste più o in molti casi che non è mai esistita, smarrendo invece il rapporto vero con la storia antropologica e sociologica di un territorio o di un distretto produttivo. E alla fine ci si omologa e si racconta il made in italy come lo racconterebbero i cinesi, semplicemente dal lato del gusto, del piacere, decontestualizzando il prodotto dal contesto di appartenenza e sprecando letteralmente anni e anni di sensibilizzazione messa in atto dai presìdi Slow Food, da Carlo Petrini o da Davide Paolini con la sua rubrica sui giacimenti gastronomici e di cultura locale.
Infine hai ragione tu, occorre evitare di inflazionare il lemma “tipico”, già purtroppo inflazionato. Su questi aspetti e sulle sue implicazioni rimando ad un articolo interessante apparso qualche tempo fa sulla rediviva e storica rivista “Alfabeta” ora Alfabeta2, scritto da Alberto Capatti, esperto in Scienze Gastronomiche che ha rivestito il ruolo di Rettore dell’Università del Gusto di Pollenzo:
http://www.alfabeta2.it/2012/06/29/tipico/
MilanoExpo
Riprendo i tuoi riferimenti, esplicitando un timore, molto condiviso. L’importante evento internazionale rischia di trasformarsi, se non lo è già diventato nell’opinione pubblica, in un salone del gusto “di cattivo gusto” (mi scuso per l’allitterazione). Un evento che avrebbe dovuto porre l’attenzione sul tema dello sviluppo sostenibile, sul ripensamento del modello economico allo scopo di riuscire a garantire in futuro il diritto al cibo per tutti gli abitanti del pianeta, rischia purtroppo di essere ricordato come la vetrina dei prodotti tipici. Noi dobbiamo sostenere dibattiti alternativi ed evitare derive di senso, cosa non semplice, dato che un ruolo retorico importante lo giocano i media nazionali, che non mostrano segnali critici correttamente orientati.
Da questo punto di vista la presenza per la prima volta nella storia delle Esposizioni Universali del Padiglione della Società Civile, Cascina Triulza, può riequilibrare in maniera parziale tali limiti, marcando la differenza rispetto a tutti gli altri padiglioni (più di 145).
Cascina Triulza ha un’occasione storica, forse irripetibile, per lasciare un contributo e una traccia tangibile riguardo ai temi dello sviluppo locale, della competitività dei terrritori, dell’innovazione sociale e culturale, dei modelli di inclusione e coesione sociale. Può farlo avendo a disposizione un palcoscenico unico ed esclusivo, una ricchezza di buone pratiche sociali, economiche, culturali che rappresentano la testimonianza originale e infungibile della concretezza e delle dotazioni delle comunità e dei territori. Può osare farlo anche in virtù della vasta rete di soggetti che si sono riuniti intorno ad un brand sociale quale Fondazione Triulza (180 organizzazioni mondiali) che può oggi accreditarsi come autorevole soggetto internazionale in grado di orientare un dibattito di senso all’interno di Milano Expo 2015.
Dentro Cascina Triulza le buone pratiche territoriali (ne sono state selezionate 200 su un totale di 1.000, attraverso call nazionali e internazionali) racconteranno le profonde relazioni esistenti tra produzioni, servizi, comunità, cittadinanza attiva, saperi, culture, tradizione e innovazione, in maniera dinamica e non retorica.
Vale la pena sostenere tali percorsi e promuovere un diverso modo di raccontare le produzioni locali scongiurando il provincialismo che hai fatto bene a ricordare.
Concludo anch’io a questo punto con una citazione di alcuni versi teatrali, con l’incipit di Made in Italy di Babilonia Teatri, Premio Scenario 2007, un piccolo capolavoro del teatro italiano dell’ultimo decennio, pungente autoritratto satirico dell’Italia attuale e del suo pericoloso provincialismo.
 
Estratto da “Made in Italy”
 

“siamo tre
come i tre dell’ave maria
i tre porcellini
i tre moschettieri
i tre dell’apocalisse
un trio di fatto
uno e trino
trino di fatto
uno d’intenti
tre come i re magi
come i sette nani meno i magici quattro
come la prima fila dei quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due
tre come il mio bancomat più i due gratis che mi aspettano in banca
come un triangolo
tre come i poteri
legislativo
governativo
giudiziario
tre come le età
infanzia
adolescenza
maturità
e vecchiaia
tre come il telefonino di nuova generazione
come le scuole
elementare
media
superiore
tre i canali rai
rai 1
rai 2
rai 3
tre le tv di berlusconi
tre quelle che ho in casa
una in
una in sala
una in cucina
tre volte al giorno mangio
tre volte vado in bagno
tre volte mi lavo i denti
tre come un tris
d’assi
di primi
vincente accoppiata tris
le tre teste del drago
tre per due
prendi tre paghi due
due li prendi te e noi ti diamo il tre
uno più uno e uno che fa tre
trentatré per cento di sconto
tre parole
sole
cuore
amore
fede
speranza
carità
tre virtù teologali
cinque sacramenti
sette vizi capitali
dieci comandamenti
uno
nessuno
centomila
tre civette sul comò
tre metri sopra il cielo
il tridente
totti
iaquinta
del piero
una fede nel cuore bruciare il meridione
le tre settimane
quella bianca
quella al mare
quella culturale
la trilogia della villeggiatura
di nostradamus
di x-man di star wars del signore degli anelli di matrix
della fallaci
di raffaello sanzio di latella della valdoca di emma dante di cecchi
la trilogia shakesperiana
la trilogia antica classica moderna
tre contratti in uno
parasubordinato
continuativo
co.co.co
le tre caravelle
tre somari e tre briganti
regione
provincia
comune
inferno
purgatorio
paradiso
tre come
tredici trenta trecento tremila treno trecce treviso tremendo tremonti tresche tressette
il trittico
del mantenga
di puccini
del masaccio
rocky 3
amici miei atto III
il decalogo parte terza
l’amore delle tre melarance
tre anni in uno
due cuori e una capanna che fa tre
triveneto
tricorno
triplice intesa
treppiede
terno
trash
trash
trash
trash

 
grazie Paolo
gennaro


 
Vittorio Coda, 3 marzo 2015
Bello questo intervento di Gennaro Di Cello!
V