Intervista a Nicoletta Stame sui “classici della valutazione”

Intervista a Nicoletta Stame sui “classici della valutazione”

Intervista di Stefania Capogna1 in «Formazione e Cambiamento», Webmagazine sulla formazione, Anno VIII – Nuova serie – Num. 50, febbraio 2008
 
S. Capogna: Tutti conosciamo il suo interesse teorico ed empirico per la valutazione. Abbiamo avuto modo di leggere e apprezzare moltissimo questo suo ultimo contributo (I classici della valutazione, Angeli, Milano, 2007) al dibattito italiano che consideriamo ricco di stimoli per la riflessione. La prima cosa che vorrei chiederle è quali sono le motivazioni per cui ha deciso di realizzare un’antologia di questo tipo?
N. Stame: La prima risposta più ovvia è che non c’era nulla in Italia su questi argomenti, però si parlava e si faceva valutazione. Io concepisco questa antologia come un testo che vuole far riflettere tutti quelli che fanno valutazione credendo che sia una semplice tecnica da applicare senza considerare tutta la teoria, la metodologia e gli approcci che la sostengono. Questo progetto è nato nell’ambito delle riflessioni della comunità dei valutatori italiani, in particolare dall’attività dell’Associazione Italiana di Valutazione (tra l’altro esce nella collana dell’Associazione Italiana di Valutazione). È sempre stato un mio interesse particolare quello di dire che bisogna avvicinarsi a questa letteratura per conoscere le ragioni che hanno spinto a fare la valutazione in altri contesti. Il grande rischio che io vedo, e che continuo a vedere anche adesso, è di far entrare le idee della valutazione nella gestione dei programmi, nel modo di fare politica e di legare le conoscenze con la realtà e con la politica, mettendo semplicemente qualche pezzo nuovo in un sistema vecchio di far politica e di fare conoscenza, senza cogliere gli elementi di rottura e di cambiamento che questa letteratura suggerisce. Io vedo la valutazione come uno strumento di apprendimento basato su una teoria, che però ha una valenza pratica. La lezione di questi autori, che sono tutti esperti valutatori e non teorici puri, persone che uniscono la teoria alla pratica di valutazione (e questo è un aspetto fondamentale della valutazione) è che il loro modo di intendere la teoria e la conoscenza sociale è rivolto al miglioramento della funzione pubblica, al miglioramento dei servizi e delle politiche sociali. È questo aspetto che, secondo me, è estremamente interessante e nuovo rispetto alla politica italiana e all’ambiente italiano ma anche europeo. In conclusione, quello che mi ha mosso all’inizio è stato questo: non solo cercare di andare indietro per riscoprire chi sono i nostri precursori ma anche cercare di capire quanto questo possa essere utile per comprendere e orientare quello che stiamo facendo.
S. Capogna: Mi sembra di capire che l’interesse centrale nell’iniziativa di pubblicare questa antologia è quello di sostenere l’importanza di una riflessione teorica, una meta valutazione potremmo dire …
N. Stame: Ma certo. La riflessione teorica è importante perché la valutazione non è soltanto una pratica. È un modo di fare e di ragionare su quello che si sta sviluppando nella pratica in vista di un miglioramento della stessa attività pratica. Rimanda costantemente ad una pratica riflessiva. Questa pratica riflessiva ha bisogno di sapere cosa si fa, come si fa, che cos’è, che tipo di riferimenti ci sono. Se si leggono gli articoli di questo volume ci si accorgerà che i riferimenti teorici sono anche molto diversi tra loro. Questo è un altro aspetto che ho voluto sottolineare con questa antologia. Innanzitutto, la valutazione non è solo una tecnica ma è una metodologia e un insieme di approcci e molto altro ancora; in secondo luogo, la valutazione non è un’attività a senso unico che segue una sola via, si può fare in molti modi diversi. Io mi sono sforzata di riportare gli elementi principali e più significativi dei diversi approcci alla valutazione. Ho cercato di essere più rappresentativa possibile. Non solo ci sono diversi approcci, ma ci sono anche dei tentativi di mixarli come l’articolo di Greene, Graham e Caracelli sui metodi misti. Quello che io voglio dire è che ogni volta che si fa valutazione si dovrebbe sapere come si fa, in che ambito si fa, perché si applica un metodo piuttosto che un altro, e io ho voluto offrire degli strumenti a cui riferirsi. L’aspetto del pluralismo è fondamentale in questo dibattito.
S. Capogna: In molti saggi presentati questo aspetto del pluralismo è sempre ricorrente, non viene mai prospettata una ricetta univoca ma l’invito ad operare una valutazione rigorosamente riferita al contesto e quindi anche capace di integrare prospettive diverse. Mi sembra questo un elemento trasversale a diversi saggi presenti nel volume, o sbaglio?
N. Stame: Assolutamente si. Questa dimensione si coglie perfettamente nell’articolo di Rossi e Freeman che parlano addirittura di “valutazioni su misura”; ma anche nell’articolo di Patton relativamente al dibattito sui paradigmi, rispetto ai quali propone una sintesi. Sulla stessa linea è anche l’articolo di Greeen, Graham e Caracelli sui metodi multipli, ma comunque nessuno presenta il proprio approccio come unico. Prendiamo ad esempio l’articolo sulla Valutazione sperimentale di Campbell. Chi lo leggerà si accorgerà che Campbell, che viene presentato normalmente come se fosse un fondamentalista dell’esperimento (come purtroppo molti lo sono), è attentissimo alle minacce interne ed esterne alla validità degli esperimenti e ai limiti degli esperimenti. Il suo contributo è utile per comprendere come legare gli esperimenti con un’analisi delle teorie che possano spiegare e facilitare la comprensione degli esperimenti stessi. È un autore che presenta una maggiore complessità di quella che normalmente si tende a immaginare.
S. Capogna: Dopo 10 anni dalla fondazione dell’Associazione Italiana di Valutazione quali sono, secondo lei, gli impatti che la cultura della valutazione ha avuto sui decisori politici, sull’accademia, sugli attori economici e sulla società civile?
N. Stame: Io sono in questo momento molto pessimista rispetto a questo, proprio per quello che ho detto prima. L’impatto della introduzione della valutazione in Italia è stato abbastanza ridotto, non nel senso istituzionale ma in quello della cultura della valutazione. Dal punto di vista pubblico c’è stato un discreto sviluppo, la maggior parte delle istituzioni pubbliche oggi hanno dei nuclei di valutazione, si fa valutazione in tanti settori, nei programmi europei, anche in molti progetti adesso è chiesta la valutazione. Però viene richiesta come un fatto rituale senza capire esattamente che cosa voglia dire fare valutazione. Anche per questo io credo che sia importante che l’associazione sia arrivata a sostenere uno sforzo come quello dell’antologia, in quanto l’associazione esiste perché vuole diffondere la cultura della valutazione. Ma diffondere la cultura della valutazione, secondo me, vuol dire diffondere l’idea che le istituzioni e gli organismi che redigono i programmi dovrebbero essere organizzazioni che vogliono apprendere da quello che succede e che usano la valutazione ai fini dell’apprendimento organizzativo e per ottenere risultati per i loro beneficiari. Quindi l’obiettivo è quello di introdurre un atteggiamento pragmatico, invece la cultura della valutazione italiana è basata su principi e una mentalità burocratica che ha tutt’altre basi culturali. La mia impressione è che ancora non sia entrata nell’amministrazione pubblica italiana una cultura della valutazione nel senso di una cultura dell’apprendimento e del miglioramento che può avvenire con la valutazione del programma. Si fanno delle cose rituali che si chiamano valutazione ma non è valutazione … E poi si passa per cultura della valutazione qualche cosa che ha a che vedere grosso modo con la programmazione, come tutto questo uso di indicatori o cose di questo genere. Ad esempio il benhmarking: non c’è mai una spiegazione del come e perché ci si avvicini a certi standard in un modo piuttosto che in un altro.
S. Capogna: In qualche modo lo ha già anticipato ma le vorrei chiedere di puntualizzare, secondo lei, quanto è diffusa oggi la cultura della valutazione nel tessuto culturale italiano, ma anche nelle scienze sociali? Quanto la valutazione è penetrata nel dibattito e quale legittimità ha ottenuto dagli attori sociali, dagli accademici ecc?
N. Stame: Se parliamo delle scienze sociali una volta la valutazione era considerata una cosa puramente marginale, una forma di ricerca minore, poco significativa dal punto di vista dell’elaborazione teorica, quindi c’era una specie di spregio della valutazione. Questo aspetto mi pare che oggi sia superato. Ormai è diventato chiaro, lo dicono molti valutatori, lo dice per esempio C. Weiss e lo dicono tanti altri, che la valutazione, semmai, ha dei vantaggi rispetto ad altri tipi di ricerca, perché è un’analisi che si fa sul campo rispetto a cose che sono effettivamente accadute. Molto spesso attraverso le valutazioni si scoprono degli aspetti che poi vengono rielaborati dalle scienze sociali. Inoltre tutti gli approcci alla valutazione basati sulla teoria sono molto legati alle scienze sociali. Il rapporto tra valutazione e scienza sociale mi sembra che sia migliorato da questo punto di vista. Però, la vera differenza, secondo me, sta un po’ nelle diverse discipline, ossia nella valutazione convergono molte discipline e a seconda delle diverse discipline che orientano una singola valutazione ci può essere un peso maggiore o minore rispetto alla teoria generale.
S. Capogna: Visto che ha richiamato questo rapporto con le discipline, vorrebbe dirmi, secondo lei, qual’è il contributo dei diversi campi disciplinari alla riflessione teorica che ruota attorno al tema della valutazione?
N. Stame: Io so benissimo, e questa è una critica che mi viene fatta, che questi autori sono prevalentemente sociologi e psicologi anche se ci sono degli economisti, in particolare Manski e Garfinkel. E ci sono degli autori che sono dei teorici sociali in genere come Rossi, per esempio, o come House, i quali non si può dire che siano legati ad una particolare disciplina. Indubbiamente in Italia soprattutto, ma anche in Europa, la valutazione è un campo particolarmente praticato dagli economisti e dagli statistici. Statistici, però, ce ne sono tanti anche qui dentro. Gli economisti ritengono, per esempio, che uno dei modi principali per fare valutazione sia l’analisi costi benefici. Ora l’analisi costi benefici è un metodo di fare valutazione, non è un approccio alla valutazione, ed è prevista da questi autori. La valutazione è un tipo di ricerca interdisciplinare; addirittura Scriven parla di trans-disciplina. È una logica, un modo di pensare che attraversa tutte le discipline, si avvale di tutte e contribuisce a tutte le discipline, perché fornisce a tutte un elemento in più che è il modo di giudicare. Solo che il modo in cui viene recepita all’interno dei singoli paesi, dalle singole realtà sociali è mutuato dalle istituzioni e dalle condizioni di contesto. Nella nostra pubblica amministrazione, cose di questo genere sono passate soltanto come forma ulteriore di controllo, per mano dei giuristi, oppure sono viste come un monopolio degli economisti, i quali fanno delle analisi macro-economiche applicate ai programmi. Ad esempio, individuano degli indicatori, cercano di comprendere come era la situazione precedentemente per vedere quello che è successo dopo 10 anni, ma fanno un quadro che non rende mai conto di cosa è successo, perché è successo, cosa è successo per causa dell’intervento oppure no. In qualche modo offrono del materiale di studio preparatorio, ma molto raramente offrono valutazioni sistematiche. Io quando parlo di economisti parlo di quelli che fanno valutazione in Italia, per esempio dei Fondi Strutturali, dei programmi del Quadro Comunitario di Sostegno, ovviamente non ce l’ho con gli economisti in generale, ma con un modo di fare valutazione a tavolino senza mai andare a vedere cosa succede concretamente sul campo.
S. Capogna: Se capisco bene si riferisce all’assenza di una valutazione di impatto quindi?
N. Stame: Infatti! La valutazione di impatto ci deve dire cosa è successo anche per migliorare, per comprendere cosa funziona e cosa non funziona. Io ho introdotto alcuni articoli proprio perché sapevo che ci sono delle resistenze in Italia e che certi temi potevano porre dei problemi. L’ho fatto quindi per provocare e stimolare un dibattito. L’articolo di Manski e Garfinkel, ad esempio, è interessantissimo ed è rivolto al pubblico italiano perché parla di analisi contro-fattuale. Alcune persone definiscono la valutazione come analisi contro-fattuale, la quale serve per capire cosa sarebbe successo in assenza di un certo intervento. In questo articolo si spiega benissimo un aspetto che è spesso dimenticato, cioè che esiste un rapporto diretto tra valutazione del processo e valutazione di risultato, queste due cose non possono essere separate. Alcuni fanno solo valutazione di processo quindi dicono: “andiamo a vedere cosa succede all’interno della situazione indipendentemente dai risultati”; altri invece dimenticano completamente tutti i problemi che ci sono stati e vanno a vedere i risultati senza conoscere il processo. Questo articolo di Manski e Garfinkel lo darei da leggere a tutti. E loro sono due economisti, magari tutti gli economisti facessero valutazioni così. Per me questo articolo dovrebbe parlare a tutti perché spiega esattamente che cosa si dovrebbe fare. È un articolo semplice e chiaro che affronta i concetti, i problemi e la logica principale a cui le persone che provengono da ambiti disciplinari diversi guardano in modo diverso, però potrebbero incontrarsi attorno a questi ragionamenti. È profondissimo.
S. Capogna: Ne parla come una sorta di “abc” della valutazione che tutti dovrebbero conoscere!
N. Stame: È esattamente così! L’“abc” della valutazione indipendentemente dagli ambiti disciplinari di provenienza.
S. Capogna: Nella antologia ad un certo punto si parla di valutazione di quarta generazione ne possiamo parlare anche in Italia? A che punto di maturazione siamo in Italia rispetto alle fasi di sviluppo/penetrazione della valutazione nelle pratiche professionali e riflessive?
N. Stame: La quarta generazione è quarta rispetto alle tre generazioni americane. Gli autori che parlano di quarta generazione, che sono Guba e Lincoln, considerano prima generazione quella degli anni ’20 ed è questo il periodo in cui si poneva attenzione ai test sui rendimenti scolastici ; la seconda generazione è quella caratterizzata dalla descrizione dei programmi del New Deal e siamo più o meno a metà degli anni ’30. Noi siamo vicini, nella nostra esperienza, a quella che loro chiamano terza e quarta generazione. La terza è quella della valutazione dei programmi che sono stati fatti in America negli anni ’60, sono i programmi della “Guerra alla povertà”, della “Grande società” di Johnson; era una valutazione orientata agli obiettivi. Qui dobbiamo ricordare che tutto l’impianto dei programmi europei dei Fondi Strutturali che hanno introdotto la valutazione in Italia sono mutuati da quel tipo di valutazione e sono stati valutati come allora venivano valutati. In questo senso noi abbiamo già vissuto quella che per loro è la terza generazione. Per noi è la prima. Invece la quarta generazione di Guba e Lincoln, sta emergendo. Certamente anche da noi ci sono molti che si avvicinano alla quarta generazione della valutazione e sono prevalentemente le persone che lavorano in ambiti particolari come le politiche sociali, l’ambiente sanitario o le politiche ambientali. Si può dire che da noi abbiamo vissuto già sia la terza che la quarta stagione della valutazione americana. Però devo dire che uno dei miei obiettivi è anche quello di far vedere che non si tratta soltanto di un’evoluzione storica, ma si tratta di capire che i modi di fare co-esistono. Questo è il motivo per cui ho fatto due indici. Mentre il primo indice è quello cronologico (che segue la stampa tipografica), il secondo indice è organizzato per argomenti e quindi riprende alcuni aspetti facendo notare che su uno stesso argomento ci sono diverse posizioni che coesistono. Queste diverse posizioni sono ancora tra noi. Con questo voglio spiegare anche il titolo dell’antologia, che può sembrare una stranezza: “I classici della valutazione”. Qualcuno mi ha detto: “ma come, sono già classici?” Pure in una disciplina così giovane questi sono punti di riferimento essenziali e questi classici si sono già espressi in modo molto diverso tra loro. Queste persone sono tutte nostre contemporanee, sono persone che dibattono tra di loro e hanno detto delle cose che sono valide ancora oggi. Non bisogna dimenticare infatti che la valutazione come disciplina, come campo di studi, è giovanissima e parte dalla metà degli anni ’60.
S. Capogna: A proposito della diversità e della ricchezza di contributi presenti nel testo, ad un certo punto si parla di valutazione sensibile e mi ha molto incuriosita. Anche in Italia possiamo dire di essere in grado di condurre esperienze valutative di questo tipo?
N. Stame: Valutazione sensibile vuol dire che reagisce alla situazione concreta, che si riferisce molto direttamente al caso. Quindi si tratta di approcci che fanno analisi più approfondite su casi specifici. Stake è uno che fa una valutazione diversa per ogni caso. In ogni situazione, secondo lui, lo stesso programma è diverso da come si svolge in un’altra, e quindi bisogna partire dai casi concreti; e, secondo lui, con l’approfondimento dei casi si capisce una quantità di cose che non si capirebbero diversamente. Quella che ripropone quindi è la differenza tra “grandi numeri e poche informazioni” e “pochi casi e molte informazioni”. Poi nelle sue analisi è anche comparativo. Ci sono anche da noi esperienze che svolgono analisi di questo tipo, forse non con quella capacità e con l’acume con cui Stake fa le sue analisi … E pensi che Stake era un matematico. Anche questo è il bello della storia della valutazione. Nella valutazione ci sono state addirittura quasi delle conversioni. C’è molto dibattito sui metodi ma nessuno è fissato con un unico approccio, sono tutte persone che ne hanno sperimentati vari.
S. Capogna: Dopo aver affrontato con lei la complessità teorico-metodologica che caratterizza il mondo della valutazione mi piacerebbe comprendere come acquisisce riconoscimento questa dimensione in Italia. Secondo lei, a quali condizioni può esistere nel nostro paese la figura professionale del valutatore, una figura che sia legittimata e accreditata? E quale dovrebbe essere il suo cursus formativo e professionale?
N. Stame: Qui ci sono tanti problemi diversi di approfondire. Qualcuno lo abbiamo già affrontato, qualcuno ancora no! Se ritorniamo alle cose che abbiamo detto, cioè a come è stata introdotta istituzionalmente nel nostro paese la valutazione, ci rifacciamo alla valutazione dei Fondi Strutturali. Chi sono stati i primi valutatori? Sono state società che hanno vinto dei bandi per il valutatore esterno da parte delle strutture pubbliche. Qui c’è un grosso problema, su cui noi come associazione ci siamo molto battuti, ed è il modo in cui vengono fatti i bandi, che di fatto favoriscono questo tipo di società. Per esempio, nel bando si chiede che la società che si presenta sia solida e abbia un fatturato elevato; così si presentano, e vincono i bandi, solo società che hanno fatturato elevato con ricerche svolte in qualunque campo, o con studi di tipo economico-statistico, le quali un bel giorno si sono trasformate in società di valutazione senza averne le competenze: e quando vincono il bando magari si rivolgono a qualcun altro per poi svolgere la ricerca. È un mercato completamente stravolto. Nell’Associazione Italiana di Valutazione abbiamo fatto presente questo problema, abbiamo fatto una mozione al Congresso di Bari del 20012, lo abbiamo ripreso in molti congressi, io questa cosa sono andata a dirla addirittura ad un convegno europeo … In ordine al secondo quesito, per formare un valutatore bisogna formare una persona che sia in grado di fare ricerca sociale, che conosca un po’ i programmi anche se non può conoscerli tutti, e quindi deve essere una persona flessibile perché nessuno conosce da subito tutti gli ambiti nei quali si può andare a fare valutazione. Si deve avere una conoscenza generale che consenta poi di entrare nel particolare, inoltre si devono avere delle capacità di gestione e di coordinamento di gruppi, perché è un’attività molto pratica. Ora non c’è nessuno che formi questo con un curriculum. Al momento esiste solo il progetto Nuval che offre dei Master di valutazione per i Nuclei di valutazione delle amministrazioni delle Regioni e dei ministeri, gestiti dalla Facoltà di Economia di alcune Università, secondo quella impostazione che ho appena criticato. Si basa infatti sull’idea che i fondamenti della valutazione siano gli studi quantitativo-statistico e il diritto. Io ritengo invece che un valutatore deve essere formato alla metodologia delle scienze sociali, alla logica della valutazione e alla conoscenza di come le nostre amministrazioni devono evolvere secondo un modello di amministrazione pubblica nuovo; mentre quelli sono i fondamenti della vecchia amministrazione del vecchio Stato centralista, che sempre si è basato sulla statistica e sulla legge. Poi ci sono tanti insegnamenti che vengono fatti individualmente all’interno dei vari corsi di laurea, oppure ci sono dei corsi brevi di valutazione, per esempio quello che fa l’Associazione Italiana di Valutazione, oppure l’Associazione PROVA. Questo problema si pone in Europa come in Italia, perché anche in Europa (e conosco bene la situazione perché sono stata presidente dell’European Evaluation Society), abbiamo cercato di fare molta attività di formazione, abbiamo fatto dei corsi precongressuali, facciamo ogni tanto dei corsi che durano una settimana. Però tutti i tentativi di fare dei profili di un curriculum universitario hanno incontrato finora delle difficoltà, anche perché sono necessariamente corsi interdisciplinari, e le nostre facoltà sono ancora tutte basate sulla separazione tra discipline. Dovrebbero essere corsi interfacoltà, ed è difficilissimo muoversi su questo terreno, esistono gelosie, diffidenze. Non siamo riusciti ancora a creare davvero corsi interfacoltà né in Italia né in Europa nonostante ci abbiamo provato. Addirittura ad un congresso europeo si promosse un curriculum di come avrebbe dovuto essere un corso di valutazione, con l’idea di offrirlo all’Università che volesse realizzarlo; molti colleghi erano di questa idea ed hanno tentato di farlo entrare nelle loro università ma non ci sono riusciti.
S. Capogna: Pensavo che l’Europa e l’Inghilterra in particolare fossero più avanti …
N. Stame: No! L’Inghilterra è assolutamente come noi, ci sono bravissimi sociologi ma in fatto di valutazione siamo allo stesso punto, ci sono docenti come Pawson che fanno in grande quello che noi facciamo in piccolo, fa dei corsi di valutazione nelle sue discipline, ma ancora non si è riusciti a fare molto di più. Recentemente ho letto un articolo3 che passa in rassegna i corsi di valutazione universitari europei esistenti. Ne considera 9, ma si tratta generalmente di corsi legati a settori specifici, come la formazione, gli aiuti internazionali, o la pubblica amministrazione. E comunque, non offrono quella impostazione ampia che sarebbe necessaria. Quindi i valutatori oggi si formano prevalentemente sul campo.
S. Capogna: L’ultima domanda allora è d’obbligo. Quali sono i motivi per cui in Italia le Facoltà non riescono a promuovere un corso dedicato nonostante si registri questo gap?
N. Stame: Nella nostra Facoltà siamo in tre docenti che fanno dei corsi dedicati. Io lo faccio da sempre ma anche altri due colleghi li fanno, ci stiamo collegando, ma ancora l’idea di fare un master di valutazione non è matura, non è mai emersa come una vera possibilità. Io sono abbastanza realista quindi non credo che arriveremo presto a fare dei corsi, dei master di valutazione ecc.; però vedo che molta gente comincia a capire che questo è un problema su cui è necessario riflettere. Certamente dovrebbe essere oggetto di un master ma io credo che debba maturare dal basso una certa insoddisfazione su come è stata fatta la valutazione fino adesso. Ad esempio, io sono molto critica rispetto a come si è fatta la valutazione dell’Università. Non credo che si possa cominciare in un modo così burocratico per poi migliorare. Questa non è valutazione, e così la gente semplicemente la evita! Secondo me, bisognava cominciare in un modo diverso, legandosi al desiderio di migliorare che hanno molti che vivono l’Università, avvicinando gli studenti, rendendo l’ambiente della ricerca più favorevole. Non dobbiamo appesantire l’apparato burocratico esistente; al contrario, dobbiamo responsabilizzare le persone coinvolte. Invece la valutazione all’Università, in questo momento, aggrava questo aspetto, supplisce ad una amministrazione che non funziona e non si riesce a far capire che l’attività di valutazione è funzionale al miglioramento. Io che sono un po’ identificata con la valutazione ritengo che oggi dobbiamo assolutamente dire cosa va male, cosa non deve essere fatto, perché altrimenti ci confondiamo con una cosa contraria ai fini della valutazione. Per questo, torno a suggerire la lettura dell’antologia: sono tutti testi che cercano di far vedere cosa si può fare, cosa si può ottenere, puntano molto sugli usi. Non c’è niente che sia oppressivo qua dentro. L’obiettivo è quello di passare da una valutazione per dovere ad una valutazione per piacere.
 
Note
1 Dottore di ricerca in Sistemi sociali, organizzazione e analisi delle politiche pubbliche (XV ciclo) presso il Dipartimento Innovazione e Società (DIeS), Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
2 È pubblicata sul n. 25 della Rassegna Italiana di Valutazione, la rivista dell’AIV.
3 W. Beywl e K. Harich, University Continuing Education in Evaluation, in «Evaluation», vol. 13 (1), 2007.

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